Comune di
Sant'Andrea Frius
Provincia del Sud Sardegna


La Storia del Comune

La storia
In epoca giudicale fece parte della curatoria di Trexenta nel Giudicato di Cagliari, fino a quando quest’ultimo nel 1257 fu smembrato in tre parti: la prima fu assegnata a Pisa, la seconda alla famiglia della Gherardesca, la terza ai Capraia, per passare poi ai giudici d’Arborea per diritto di successione. A costoro toccò per l’appunto anche il paese di Frius, che risulta certamente abitato perché si trova menzionato in una carta del 1219 (secondo Arrigo Solmi il documento dovrebbe invece risalire esattamente a cento anni prima). Alterne vicende portarono il villaggio in possesso di Pisa (sul finire del Duecento), poi ad esser feudo di Pisa sotto la sovranità degli Aragonesi ed infine di nuovo in mano ai giudici di Arborea a metà Trecento. Contemporaneamente, però, la guerra che si era accesa tra Mariano IV d’Arborea e Pietro IV d’Aragona era stata causa non ultima dello spopolamento del borgo, il che non impedì che il suo territorio, unitamente alla Trexenta della quale continuò peraltro a far parte, venisse dato in feudo a diversi nobiluomini spagnoli delle casate più illustri, fra cui i più noti furono Giacomo di Besora nel XV secolo ed in seguito gli Alagon, che poi si fregiarono anche del titolo di marchesi di Villasor.
Si dovette tuttavia attendere il 1699 per assistere alla rinascita del villaggio. Infatti il 22 dicembre di quell’anno don Artale di Alagon, feudatario del luogo, permise ad un gruppo di abitanti di Nuraminis e Villagreca di ripopolare il paese. Concesse a ciascuno di loro 20 starelli di terra, di cui 5 destinati alla casa e a una vigna ed in più anche la possibilità di disporne vendendoli, con l’unico vincolo di cederli ad altri vassalli e non a forestieri; riservò loro spazi adeguati da destinare al pascolo dei buoi da lavoro, individuandoli in un’area di 70 starelli, sita in regione Coxinas, nonché più in generale la facoltà di introdurre il bestiame in tutta la Trexenta. Furono previste esenzioni fiscali per 5 anni (totali per i primogeniti). I tributi feudali consistevano nel pagamento ogni anno di 33 soldi per i proprietari di gioghi di buoi o 23 per i non possessori e nel versamento di uno starello di grano e uno di orzo, e per i pastori nella consegna di un capo di bestiame ogni 33 fino a 100 (oltre questo numero c’era una quota fissa di 3 capi, al fine di favorirne la crescita). Lo stesso dicasi per il vino: 5 soldi ogni 30 cantari, mentre nulla era dovuto una volta superata questa quantità. Altre prestazioni o tasse furono sostituite dal pagamento forfettario di un quarto di starello di grano e altro quarto di orzo – fra quelle abolite c’era per esempio l’incarica, che prevedeva l’indennizzo a carico della comunità dei danni derivanti da delitti avvenuti nel centro abitato.
Ad ogni modo le condizioni del villaggio restarono misere a lungo. Il parroco nel 1777 ne fece un quadro sconfortante: povera la chiesa, il cimitero non recintato col rischio che i cani disseppellissero i cadaveri, niente legati pii o cappellanie, né monte granatico vero e proprio, dato che si era costretti a prendere in affitto un magazzino; i parrocchiani, poi, frequentavano poco i sacramenti, essendo «gente di montagna», il che non escludeva che pretendessero funerali «con pompa» senza però pagarli.
Anche nell’Ottocento non si fecero grandi progressi. Si dava atto che gli abitanti erano gente laboriosa, ma per motivi contingenti non riuscivano a uscire dalla povertà, ora perché non potevano dedicarsi adeguatamente ai lavori agricoli, che trascuravano per andare nei boschi a far legna da destinare alla vendita, ora perché trovavano difficoltà a smerciare i prodotti per mancanza di acquirenti. Si può dire che per avere segni di un certo progresso bisognerà arrivare agli anni più recenti col potenziamento dell’allevamento del bestiame, con lo sviluppo di piccole imprese nei settori edilizio e agro-alimentare ed anche turistico-commerciale (agriturismo). Di ciò è indice anche l’aumento della popolazione, che solo a decorrere dal Novecento ha avuto una crescita costante fino a raggiungere il numero di 1892 abitanti nel 2001.
Da segnalare infine che il paese mantiene discretamente un certo numero di tradizioni popolari legate alle feste dei santi e al carnevale, così come molti piatti tipici della cucina campidanese.
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